
04 Dic Arte per pensare: madri
Voglio partire da lontano. E cominciare da una finestra, da Matisse, dalla luce calda che si propaga attraverso un mare latino…

AGN_014

Per la cappella delle domenicane a Vence, in Provenza; tra il 1949 e il 1951. Un Matisse anziano e malato traccia con una matita nera una linea sinuosa e morbida che crea l’abbraccio tra una madre e un figlio; anzi, tra la Madre e il Figlio per antonomasia della cultura occidentale cristiana. E’ l’ora di superare il limite dell’individualismo e, al tramonto di una vita, tornare là dove tutto è iniziato: alla nascita; all’abbraccio di una madre col proprio figlio.

Mater matuta. Madre matura. Madre del mattino. La terracotta etrusca, dalla funzione originaria di urna cineraria, è tra i più antichi atti di pieno riconoscimento della sacralità della donna madre. La donna, assisa su un trono dai braccioli a forma di eleganti sfingi, ha i capelli raccolti, la veste sontuosa, lo sguardo severo e grave. Il bambino in grembo, avvolto in fasce, è tenuto dalle sue mani grandi e forti: nessuno potrà disturbare il suo sonno. Madre del mattino, madre che dà vita, madre che protegge la vita. Il riconoscimento è solenne. Non c’è spazio per sentimenti né sentimentalismi. C’è solo un’inconfutabile verità: la donna e la sua creatura sono protagonisti del grande racconto, insieme sacro e naturale, della vita. Tutto il resto viene dopo.


Giotto ha narrato a più riprese il rapporto che lega una madre al figlio attraverso le scene della vita di Maria e Gesù. Nella Fuga in Egitto degli Scrovegni a loro è riservato il centro della scena mentre, scortati da un piccolo drappello di figure precedute dal padre Giuseppe, si allontanano da Betlemme per sfuggire all’editto infanticida di Erode. La terra brulla, gli alberelli scarnificati, il cielo azzurro freddo come una lastra di ghiaccio accrescono il senso di solennità dell’evento che si rispecchia nello sguardo severo e assorto della madre. Il viaggio è faticoso, carico di rischi e pericoli, ma è stato necessario intraprenderlo per mettere al riparo il figlio la cui vita è, lei si, il centro vero della scena. Madri che si mettono in cammino verso l’ignoto col cuore gonfio di disperazione per portare in salvo i figli: a quante di loro tocca il centro della scena? a quante di loro tocca un mezzo di trasporto adeguato? a quante di loro è riservata un’accoglienza degna del carico preziosissimo di vita che recano con sé?

Masaccio, Madonna del solletico. Masaccio ovvero Firenze ovvero il rinascimento, l’umanesimo, l’età moderna. La giovane madre è intenta a trastullare il bambino perché non si agiti, perché stia calmo tra le sue braccia nel momento precedente quello solenne dell’esposizione ai fedeli. Il pittore ci porta in una sorta di “dietro le quinte” rispetto alle tavole medievali, sulle quali il sacro Bambino assumeva la posa e la configurazione fisica di un piccolo uomo. Qui no. Qui il bambino è un bambino vero, col corallo beneaugurante al collo, le gote paffutelle, le labbra dischiuse in un tenero sorriso, le manine aggrappate all’avambraccio materno. L’intesa tra i due è piena. Con affetto e premura la giovane donna accompagna i primi passi del figlio nell’esperienza del mondo sensibile, che si farà poi conoscenza di sé e degli altri.

Quanta gioia e quanta grazia nell’abbraccio stretto tra una giovane madre e il figlioletto: questo ci dice Raffaello. Il pittore si immedesima completamente nel mondo degli affetti di una giovane donna madre; osserva; si ferma a ragionare e poi torna ad osservare; e osserva, e ragiona, e osserva ancora. Ecco che ne viene fuori il più semplice e puro dei sentimenti in modo diretto, naturale, come chiunque potrebbe riconoscere ma come solo Raffaello è riuscito a descrivere. E, da maestro qual è, ci accompagna lungo il sentiero che conduce ad un’esistenza vissuta in armonia, dove non ci sono urla, sbavature, grossolane e becere ostentazioni.

Perché non guardi tuo figlio? Perché? Il piccolo non sembra soffrire, di questa tua distanza, ma tu? Lo sai cosa perdi? Nel secolo della “maraviglia”, dell’apparire, del mondo ridotto a spettacolo e i devoti a spettatori, Anton Van Dyck coglie la solitudine superba di una nobildonna imprigionata nel suo abito sontuoso e nella ricchezza dei suoi gioielli. Una donna, questa barocca, che si emancipa dal ruolo di madre sacra e solenne per affermarsi come individuo, come persona. E che, nel fare questo, si adegua alla messa in scena del potere, che è stato sempre maschile. Ma per fortuna c’è anche un po’ di vita vera, il tappeto spiegazzato in primo piano e il cane scalpitante sul fondo…

Donne il cui potere proviene solo dalla casa, dalla famiglia, dai figli. Donne semplici, umili nei loro vestiti dignitosi senza essere vistosi né tanto meno alla moda. Il Pitocchetto di Brescia le coglie in un momento domestico, quotidiano. Formano un bel gruppetto affiatato, all’interno del quale ciascuna di loro trova la propria dignità e la propria forza. Sono donne che lavorano, donne di varie età. La madre in primo piano tiene la mano della figlia per guidarla nella lettura: un atto di emancipazione ineccepibile dell’universo femminile nel secolo dei Lumi, in un angolo di provincia molto distante dai centri di potere euroepei.

Pagina non esemplare di amore materno, ma molto umana, quello della pittrice Elisabeth Vigée Le Brun verso la figlia Jeanne… Qui stringe a sé la figlioletta, in un autoritratto eseguito nello stesso anno della rivoluzione francese. Secondo la moda del momento le vesti sono “alla greca”; lo stesso vale per l’acconciatura dei capelli. L’ambiente è scarno, asciutto. Basta a riempirlo l’affiatamento tra le due donne, la loro complicità, il loro identico sentire… In seguito il loro rapporto fu incrinato per il matrimonio della giovinetta, sposatasi contro la volontà materna. Elisabeth, moglie delusa, si sentì tradita da quell’unica figlia sulla quale aveva riposto tutto il suo affetto. Le due donne non si riconcilieranno mai del tutto…

E allora corriamo con Monet nei campi di papaveri della Francia del nord, con il nostro cappello di paglia e l’ombrellino sbattuto dal vento caldo dell’estate atlantica. E facciamolo in compagnia di nostro figlio, insegnandogli la bellezza liberatoria di una passeggiata, la dolcezza del profumo della campagna estiva, la ricchezza di un “dolce far niente” che riempie la nostra mente e nutre lo spirito…

Silenzio! Qui si dorme… Mentre le signore di città scoprono il piacere della campagna, dentro questa stalla alpina Giovanni Segantini allestisce lo spettacolo fin troppo reale per non sfociare nel simbolismo di una maternità duale: quella di una mucca col suo vitello e di una madre col figlio in grembo…

Picasso è la materia, la pietra, la roccia piegata a pittura. Concretezza di corpi solidi, scultorei. Mani granitiche, come fossero utensili arcaici che toccano, abbracciano, accarezzano. Fuori, la semplificazione formale dei kouroi greci; dentro, la tenerezza primigenia del gioco di affetti che lega una madre al proprio figlio…

Ricominciamo “ab ovo”… Un uomo, una donna… Due individui che, dovendo fare un cammino comune, non si svelano: fulminante intuizione di Magritte… Ognuno con la propria solitudine, come fossero due estranei… Togliere quei veli è difficile, è faticoso; e può essere anche doloroso, molto doloroso. Ma è inevitabile se dobbiamo camminare fianco a fianco e costruire un progetto di vita e non teatro. Perché non cominciamo noi donne? Io, madre con un percorso accidentato come tante, avrei delle idee: a partire da una stanza di affetti, dove educare ai sentimenti del rispetto e della umana compassione figli maschi e figlie femmine…

No Comments